Il mercato bio si trova in questo momento in una fase critica:

  • da una parte continua a crescere in popolarità e consumi fino a superare il 3% del totale delle vendite, con una crescita attorno al 10% anche nel 2017;
  • dall’altro, l’offerta è nettamente superiore alla domanda: si parla di una presenza del bio sugli scaffali pari al 7% contro un valore di vendita del 3%… (più del doppio).

Chi sta perdendo di più sono i negozi specializzati e i grossisti collegati, con perdite dal 15 al 20%, a favore della grande distribuzione e dell’e-commerce.

Per quale motivo? Punto di forza e punto di debolezza del bio è il fatto che non parliamo di un prodotto, ma di un metodo di produzione e di una filiera che devono rispettare determinati criteri, stabiliti dalle direttive comunitarie e dalle leggi dei singoli paesi.

Nel momento in cui la richiesta da parte del mercato è divenuta sensibile è stato semplice aumentare a dismisura l’offerta di prodotti biologici.

Per capirci: Nutella ha avuto migliaia di tentativi di imitazione, ma Nutella  resta Nutella.

Il biologico invece posiziona sullo stesso piano sia la multinazionale, sia l’agricoltore che coltiva con passione un orto biodinamico di 500 mq. Basta avere la bandierina bio.

La conseguenza positiva è: oggi il bio è su tutte le tavole.

Ma c’è un problema: questo bio ha perso le radici.Non è più un valore: è diventato un aggettivoche aggiunge qualità ad un prodotto (paragonabile a senza glutine, senza zucchero, vegetale, km zero…) e per il mass market va bene così.

Devo dire che mi dà un po’ fastidio vedere certe pubblicità in televisione, fra mulini, campi e tanto amore… falso; interpretato da attori, perché non c’è nessuno lì, che può avere la credibilità per mettere la faccia su propri prodotti “bio”!

Chi ha portato il biologico fino a qui, oggi è in grande difficoltà, perché non riesce a comunicare la differenza, ciò che distingue il piccolo agricoltore dalla multinazionale e quindi non riesce più ad essere competitivo in un mercato dove sono entrati in gioco i Top Player… che non ti fanno più vedere il pallone.

Per ritrovare il bandolo della matassa è necessario ripartire da dove tutto è incominciato.

Il biologico è uno dei tanti figli dei fiori (mica solo Steve Jobs J). Nei primi anni ’70, quando si è cominciato a capire che né con le buone, né con le cattive, la fantasia sarebbe andata al potere, sono nate diverse comunità, negli Stati Uniti e in Europa, che hanno iniziato a praticare una agricoltura antagonista al modello industriale, rispettosa della natura, dell’uomo e degli animali. Spesso in maniera molto primitiva ed improvvisata, con risultati piuttosto scadenti.

Poi però questo movimento ha cominciato a crescere, incontrando anche uomini appassionati e preparati, che hanno cominciato a dare un senso e un volto al biologico.

In Italia mi piace ricordare un amico, Gino Girolomoni e la sua cooperativa Alce Nero.

Sul finire degli anni ’70 aveva cominciato a produrre pasta integrale biologica, ma era soggetto a sequestri continui perchè, i NAS di allora, definivano il prodotto non commestibile per l’uomo…

Una delle prime associazioni nate in Italia a sostegno del biologico si chiamava

“sarà biologico?”, proprio perché si sentiva questa esigenza di tutelare il consumatore ed il vero coltivatore bio e metterlo al riparo dalle truffe. Si è arrivati così alla prima direttiva Cee del ’92  che definisce il metodo di coltivazione biologico.

Siamo passati dalla fase degli ideali, alla fase della certificazione, che per molti anni hanno felicemente convissuto, finché il settore da piccola nicchia è diventato segmento di mercato e la certificazione non è più stata sufficiente a proteggere il settore,anzi…oggi paradossalmente, è stato lo strumento per fare entrare in gioco nuovi soggetti che non hanno nulla in comune con i fondatori del bio.

Questo passaggio è stato definito da affermazioni tipo: “c’è un grande prato verde…”, o meglio: “c’è un banchetto già bello apparecchiato…”

L’atteggiamento fra il supino e l’entusiasta, con cui associazioni di produttori e soggetti vari all’interno del mondo bio, hanno offerto il “piatto ricco” alla gdo, è stato superficiale, da sprovveduti, con l’uovo oggi preferito alla gallina di domani, un rapporto molto a rischio e “senza protezione”… Non è stato minimamente gestito il rapporto di forza che il biologico portava con sé in termini di innovazione, di credibilità da parte del consumatore, di capacità di crescere in un momento in cui il resto dell’offerta alimentare fatica a non perdere.

Oggi il bio è largamente presente sugli scaffali dei supermercati, spesso nascosto dietro marchi di catena, senza nessuno in grado di raccontarlo.

Così il biologico ha perso le radici: mischiato fra vegan, senza glutine, integrale, alimenti per lo sport, è diventato un cibo per fanatici, alla moda, ammalati, stitici, con l’ossessione degli ingredienti e delle tabelle nutrizionali… a combattere con il prezzo, con rischi enormi sulla sicurezza e la certificazione.

I «figli dei fiori» invecchiano e corrono il rischio di appassire, travolti da un «abbraccio mortale».

Ma mi chiedo: se ad una pianta vengono strappate le radici, qual è la sua prospettiva di vita? Chi dice di avere a cuore il bio ed ha tanto plaudito a questo bio boom, pensa che le cose andranno avanti per inerzia?

Quale sarà il ruolo di chi fino ad oggi ha coltivato e fatto conoscere e crescere il bio nel momento in cui gli vengono tagliate le gambe e un intero canale di vendita viene messo in ginocchio? Ho sentito dire delle fesserie del tipo: non c’è problema, i negozi bio specializzati devono cambiare, si devono aggiornare, devono puntare sul servizio, la consulenza. Certo, perché fare consulenza gratis a chi poi acquista al supermercato o su internet ti permette di pagare l’affitto e i dipendenti?! Chi finanzia questa ristrutturazione? Quale sarà il nuovo posizionamento dello specializzato? Quale equilibrio si andrà a creare nel mercato del bio? Quali paletti saremo in grado di mettere? Quali garanzie a chi vorrà investire nei negozi specializzati?

Mi piacerebbe tanto poterne discutere, ma con chi?

Occorre ripartire dalle radici, dagli ideali, dalle storie, dal sudore, dalla credibilità, dalla mission, di chi ha veramente a cuore il bio.

Serve dare una nuova identità al biologico, che non può essere la stessa cosa se prodotto da un industria che produce il 2% bio e il resto convenzionale, o da una azienda nata e cresciuta per fare solo bio per scelta, per volontà e passione.

Il biologico non può più essere solo un metodo di produzione e filiera certificati. Occorre partire dalla certificazione, per arrivare all’oggetto della produzione, che deve avere una sua identità al di là di come è stato coltivato.

Per questo deve avere un brand, una storia, valori da comunicare…essere credibile e semplice da recepire da parte del consumatore…fino a diventare insostituibile.

Mangiare bio e mangiare sano non sono la stessa cosa. Oggi la grande rivoluzione che possiamo fare è quella di alzare l’asticella, di cominciare a parlare di metodi di coltivazione che oltre a non utilizzare pesticidi, aiutino a preservare i nutrienti (stagionalità, freschezza, metodo di conservazione, concimazione, rotazioni, dinamizzazione, ecc.); dobbiamo parlare di ingredienti (perché spesso i cibi bio hanno comunque delle ricette sbagliate dal punto di vista nutrizionale); dobbiamo parlare di gusto; dobbiamo fare attenzione ai nuovi stili di vita; dobbiamo fare in modo che chi lavora nel bio possa mettere passione e gioianel proprio lavoro, perché questo cambia totalmente  il valore energetico (non la tabella nutrizionale) del cibo, come questo si interfaccia con le cellule del nostro corpo, che messaggio porta con sé: odio, sfruttamento, rabbia entrano nel cibo, ci piaccia o no.

Fare un passo indietro per riprendere un cammino che va su in salita, pieno di insidie e difficoltà, ma che ci porterà in alto e ci farà vedere lontano.